La Ue mette Amazon nel mirino

La notizia è arrivata a metà della settimana scorsa. Amazon – il colosso dell’e-commerce che si contende con Apple il record delle società a maggior capitalizzazione di Wall Street (entrambe le aziende hanno un valore superiore a mille miliardi di dollari) – è finito sotto la lente dell’Antitrust Ue che vuol accertare se l’utilizzo della piattaforma da parte di altri venditori consenta alla società di raccogliere «dati sensibili» a proprio vantaggio acquisendo così di fatto una posizione dominante. Non si tratta di un’«indagine formale», ha detto il commissario Ue alla Concorrenza Margrethe Vestager, ma si è a uno stadio iniziale e si «stanno raccogliendo informazioni». «La domanda riguarda i dati» che Amazon raccoglie dai commercianti più piccoli sul suo sito, ha continuato la Vestager – secondo quanto riferisce l’agenzia Bloomberg – e su come siano utilizzati «questi dati per fare i propri calcoli, su cosa vogliono le persone, che tipo di offerte vogliono ricevere, cosa li fa comprare cose. Questo ci ha spinto ad avviare un’indagine preliminare». Insomma, il dubbio è che Amazon, utilizzando i dati a sua disposizione, li usi per massimizzare la sue vendite a discapito di quelle delle terze parti.

Google è già stata nel mirino di un’inchiesta simile. Il caso è quello del servizio che faceva una comparazione dei prezzi. La Commissione ha ritenuto che Google si prendesse un vantaggio illecito sulla concorrenza. Alla fine – dopo ben otto anni d’indagine – la società è stata colpita da una megamulta da 2,4 miliardi di euro, che detto così sembra una gran cosa, ma alla fine è solo l’8% del flusso di cassa operativo di Google dell’anno scorso. Però questa volta, come nota il Financial Times, è stata la Commissione stessa a far partire l’indagine non aspettando un reclamo da parte delle aziende che si ritengono danneggiate. Questo dimostra che l’atteggiamento di Bruxelles è molto più aggressivo e le conseguenze potrebbero essere pesanti.

Ma al quartier generale di Amazon non sembrano troppo preoccupati. Secondo l’agenzia Bloomberg stanno pianificando negli Stati Uniti l’apertura di 3.000 supermercati alimentari «Amazon Go», senza cassa, nei prossimi anni. Insomma dal commercio virtuale a quello tradizionale. Con il solito mantra: «Distruggere i concorrenti e dominare il mercato».

Analisi pubblicata dalla Gazzetta di Parma del 24 settembre 2018

La Corte suprema Usa, tra reality e Pirandello

Il programma tv di maggior successo della settimana scorsa – almeno come quantità di reazioni sui mass media – non è stato uno show, una serie televisiva e nemmeno un «reality», ma la doppia audizione al Senato degli Stati Uniti per il pro- cesso di conferma di un giudice della Corte suprema, il massimo organo giurisdizionale americano che decide della costituzionalità delle leggi.

La Corte suprema è il più importante contrappeso al potere legislativo del Congresso e di quello esecutivo del presidente e del suo governo. I giudici sono incaricati a vita dopo essere stati designati dal presidente e confermati da un voto del Senato. Per questo è così importante per un presidente designare quanti più membri della Corte possibile, perché, in questo modo, se il giudice è abbastanza giovane e di salute non cagionevole, l’eredità ideologica della presidenza potrà durare più a lungo dei due mandati che sono il massimo concesso a qualunque «commander in chief».

Trump ha già nominato un membro della Corte suprema, Neil Gorsuch, e con la designazione di Brett Kavanaugh ha l’opportunità di cambiare per molto tempo gli equilibri del supremo organo giuridico, spostandoli in modo deciso verso l’ideologia del conservatorismo americano. Quindi i democratici sono sul piede di guerra per cercare di blocare Kavanaugh.

Ma non è il pur accesissimo scontro ideologico quello che ha stregato gli americani. Sono invece temi come la violenza sessuale e i rapporti di potere tra i sessi. Christine Blasey Ford – 51 anni, stimata docente universitaria di psicologia – ha infatti accusato Kavanaugh di aver tentato di stuprarla durante una festa negli anni del liceo. Poi ne è saltata fuori un’altra, Deborah Ramirez, che ha affermato di essere stata testimone di altri comportamenti impropri a Yale. Infine anche una terza donna si è fatta avanti.

Per questi motivi l’audizione della Ford e la replica di Kavanaugh sono diventati il programma tv della settimana. E qui sono iniziati i problemi del giudice. Perché la deposizione della Ford – con tutte le sue incertezze – ha ribadito un unico concetto: lei è sicura «al 100 per cento» che Kavanaugh ha tentato di violentarla. «Le risate di Brett e del suo compare mentre tentavano la violenza sono stampati nella mia memoria», ha detto la Ford. Kavanaugh, invece, non è stato così convincente pur ribadendo, in modo egualmente emotivo, lacrime comprese, la sua totale innocenza. La rabbia nemmeno mascherata ha giocato a suo sfavore. La verità televisiva non è razionale, ma emotiva: la fragilità attrae, la rabbia respinge. Così ora ci sarà un’ulteriore indagine della Fbi, che probabilmente non arriverà a conclusioni certe e inconfutabili. Ma a Kavananugh, se eletto, rimarrà lo stigma del violentatore. Il secondo giudice in questa Corte ad avere quel tipo di reputazione, tra l’altro. Infatti Clarence Thomas, anche lui conservatore, fu ugualmente accusato di molestie. Forse un po’ troppo per le donne americane che a novembre andranno al voto.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del primo ottobre


Facebook, dimissioni a raffica

Ormai è un copione che si ripete. Facebook acquisisce un’applicazione di grande successo, pagando una cifra esorbitante, in contanti e azioni, ai fondatori che, nello stesso tempo, diventano dirigenti del più famoso social network del mondo. E’ successo con WhatsApp, è successo con Instagram. E in precedenza era successo, a un livello minore per soldi e clamore, con Friendfeed, un piccolo social network rivale di Facebook, che però aveva delle caratteristiche – una su tutte, la possibilità di commentare in tempo reale il «newsfeed», cioè la «timeline» che costituisce la nostra pagina Facebook – che facevano gola alla società di Menlo Park. Sono poche le startup che hanno la capacità di resistere alla forza attrattiva di Facebook. E’ tipo sottrarsi alla forza gravitazionale di un buco nero. Per ora solo Twitter e Snapchat lo hanno fatto e sono rimaste indipendenti. Con tutti i problemi – anche finanziari – che questo comporta.

Però il copione si ripete anche in seguito: i fondatori di queste società, dopo un breve periodo di luna di miele, si scontrano con il management di Facebook, o con Mark Zuckerberg stesso e alla fine se ne vanno. Certo di solito non sono addii traumatici, ammorbiditi come sono dai milioni di dollari ricevuti e da accordi di non divulgazione – anche questi ben re- munerati – che non permettono di parlare di quello che è accaduto con la stampa. L’ultimo episodio è di lunedì scorso, quando Kevin Systrom e Mike Krieger, i co-fondatori di Instagram, hanno lasciato la società. Le spiegazioni sono quelle – anodine – dei comunicati stampa preconfezionati: “voglia di vacanze”, “più tempo da dedicare alla famiglia”, ecc. Ma an- dando un po’ più a fondo si possono almeno intravvedere i veri motivi. Anzi, il vero motivo. Facebook è una macchina per produrre utili e una volta acquisite le applicazioni finisce la sperimentazione e inizia la «mungitura». Per Instagram questo ha significato la fine del «newsfeed» cronologico e lo sviluppo delle «stories» – le raccolte impermanenti come un mandala buddista – copiate da Snapchat e fatte per attirare il pubblico più giovane. In più l’arrivo – massiccio – dei contenuti «sponsorizzati», cioè della pubblicità mirata che è il vero motore del business di Facebook.

Prima di Systrom e Krieger se n’era andato, con più vis «polemica» anche Brian Acton, uno degli inventori di WhatsApp, venduta per 22 miliardi di dollari. Lui il motivo lo ha detto subito: troppe pressioni per monetizzare il servizio e poca attenzione alle esigenze degli utenti.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del primo ottobre


Apple iPhone, il problema non è il prezzo

La settimana scorsa Apple ha presentato, con il solito megashow dalla nuova sede circolare di Cupertino, i nuovi modelli di iPhone, assieme al nuovo Apple Watch. Le novità non sono mirabolanti, come spesso succede con i modelli che vengono denominati «S» che sono delle migliorie rispetto ai modelli che hanno fatto molta innovazione, come l’iPhone 6 e l’iPhone X. Si tratta di smartphone migliori come prestazioni, con processori più veloci, batterie con durata più lunga ecc. La vera novità è che il mercato si attendeva prezzi lievemente in calo oppure invariati e invece questo è successo solo in parte. E’ vero che Tim Cook, il Ceo di Apple, ha presentato un modello «economico» – si fa per dire, visto che il modello base costa 889 euro – l’iPhone Xr, ma è un fatto che il modello più costoso – l’iPhone Xs Max, con uno schermo più largo dell’Xs normale – può arrivare a costare fino a 1.689 euro, più di uno stipendio mensile medio in Italia.

Naturalmente quasi tutti i mass media mondiali hanno enfatizzato quest’ultimo aspetto, facendo anche notare che, mentre Apple continua ad aumentare i prezzi (e le prestazioni), il mondo degli Smartphone Android sta facendo il contrario, diminuendo drasticamente il costo di modelli anche molto sofisticati. Il fatto è che il «brand» Apple è talmente forte che, come accade con gli oggetti di lusso, il prezzo ha solo una piccola parte nella decisione di acquisto. Anzi, è pure possibile che il prezzo alto renda l’oggetto ancora più appetibile perché aumenta il suo potere di «status symbol». E questo si è visto con le vendite dell’iPhone X, modello tremendamente innovativo per il mondo Apple, con il suo riconoscimento facciale molto sofisticato, però con qualche problema di messa a punto. E sopratutto con un pezzo ritenuto stratosferico, visto che in Europa costava più di mille euro. Eppure le vendite sono andate molto bene, anche tenendo conto che molte volte il prezzo, in qualche modo, viene nascosto dal proprio «carrier» telefonico che si accolla parte dei costo dello smartphone «status symbol» per farti acquistare un abbonamento premium, sperando che tu poi, per pigrizia, decida di non cambiare per una tariffa più economica

Il problema vero di Apple, comunque, si chiama Donald Trump. O meglio la politica economica dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Se Trump insisterà ad aumentare la quota di merci cinesi sottoposte a dazi, infatti, la sottile trama logistica di Apple, che produce tutti i suoi telefonini in Oriente, potrebbe lacerarsi in più punti.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 17 settembre

Il dramma di Genova e la dittatura dell’istante

Viviamo in un’epoca che non sopporta l’incertezza e pretende chiarezza assoluta. Sempre e ovunque. Il tutto in tempi rapidi. Anzi rapidissimi. Se possibile istantanei. Purtroppo però molte cose della vita e del mondo sono complicate. Complesse.

Il gran libro della natura – diceva Galileo nel «Saggiatore» – è scritto «in lingua matematica e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche» e «senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto». Per questo abbiamo bisogno di professionisti. Ma anche loro hanno bisogno di tempo per capire e raggiungere conclusioni che a volte sono solo probabili.

Questo per dire che non è semplice capire perché il viadotto Morandi sia crollato. E ci vorranno mesi per raggiungere una conclusione. Si spera univoca. Ieri, per esempio, qualcuno ha dato la colpa a un «carroponte», il cui peso avrebbe indebolito una struttura già ammalorata. Peccato, però che il «carroponte», dice la ditta, non fosse ancora stato installato. E comunque il suo peso – 7 tonnellate – è minore di quello di un Tir. Insomma, anche se il premier Conte ha detto che «non si possono attendere i tempi della giustizia», bisognerà aspettare qualche mese. Anche solo per avere un quadro delle cause del crollo. Ma è molto più semplice trovare un capro espiatorio. Un rito tribale, ma che pare adatto alla dittatura dell’istante di questi tempi iperconnessi.

Editoriale della Gazzetta di Parma del 21 agosto 2018

Erdogan e i limiti del sovranismo in economia

Agosto, si sa, è tradizionalmente il mese delle crisi valutarie. Ma la tempesta che sta investendo la Turchia non è una crisi di metà estate. Il Paese ha un debito estero netto pari al 35% del Pil e riserve valutarie per poco più di 100 miliardi di dollari, mentre nel 2019 andranno in scadenza debiti contratti dalle aziende per 70 miliardi di dollari. Il deficit delle partite correnti è pari a circa il 6% del Pil e in peggioramento, visto la debolezza della lira turca che ha perso più del 40% da inizio anno. La crescita dell’economia è buona, ma l’inflazione ha toccato il 15%.

La Turchia per arginare la tempesta dovrebbe alzare i tassi di interesse – e in qualche modo la banca centrale ha tentato di farlo, anche se in modo opaco – e chiedere un prestito al Fmi che di solito arriva, ma assieme a una serie di stringenti vincoli di finanza pubblica. Abbastanza per domare l’inflazione, fermare la svalutazione e mettere a posto i conti. Ma abbastanza anche per frenare la crescita. E questo Recep Tayyip Erdogan non può permetterselo. Meglio continuare con la svalutazione e l’inflazione, che impoveriscono i turchi, ma di cui si può dare la colpa alla speculazione estera. Solo che questa strada porta all’autarchia con, nel caso più grave, la fine del mercato libero dei capitali e la ridenominazione in lire turche dei depositi in valuta straniera dei propri cittadini. Insomma, un disastro economico. Ma che è più facile vendere all’opinione pubblica in tempi di nazionalismo esasperato.

Editoriale della Gazzetta di Parma del 14 agosto 2018

Federico Fubini, FiveThirtyEight e la trollfarm russa

Questa sera Federico Fubini ha pubblicato un interessante articolo sulle implicazioni italiane delle azioni di disinformazione dell’IRA, che non è l’Irish Republican Army, ma la famigerata trollfarm russa, Internet Research Agency. L’IRA, probabilmente, è stata coinvolta nel tentativo – non si sa quanto produttivo – di condizionare il voto USA alle presidenziale del 2016. Per questo è in corso un’indagine, vista come fumo negli occhi da Donald Trump,  dello special prosecutor Robert Mueller.  Peccato che, forse nel tentativo di mettere un  po’ di pepe sulla pietanza, Fubini faccia un po’ di confusione. Infatti, non si tratta di una fuga di notizie dall’ufficio di Mueller. Si tratta del lavoro di due ricercatori che hanno scaricato – con un programma commerciale – i tweet degli account dell’IRA che erano in una lista pubblica come dice a chiare lettere FiveThirtyEight che ha dato la notizia e che ha messo a disposizione i tre milioni  di tweet  su GitHub.

Questo è l’articolo di Federico Fubini sul Corriere della Sera online

Questo è l’articolo di FiveThirtyEight (se ne consiglia la lettura)

Questa è la repository di GitHub (se volete perdere del tempo, ma 3 milioni di tweet si affrontano con strumenti software e non con le citazioni di nomi illustri)

Questa è la bozza dell’articolo di  Darren L. Linvill e Patrick L. Warren (che forse vale la pena di leggere)

Corriere della Sera, FiveThirtyEight, Github, Darren L. Linvill e Patrick L. Warren

Alan Friedman, Paul Manafort e Romano Prodi

Stasera sul New York Times Jason Horowitz (@jasondhorowitz) ricostruisce la storia della triangolazione – a favore di Viktor Yanukovich, l’ex dittatore filorusso dell’Ucraina – tra Paul Manaford (che per questo è  in custodia cautelare negli States, nell’ambito di un procedimento nato dall’inchiesta sul Russiagate), Alan Friedman e Romano Prodi, autore di un editoriale sul NYT che non si capisce da chi sia stato scritto. 

Prodi non ci fa una gran figura, ma la cosa più divertente è il giudizio tranchant di Horowitz riguardo a Friedman:

[…] Mr. Friedman stopped being a reporter long ago. Instead, he has become an American exemplar of Italy’s transactional culture, its sometimes provincial sensitivity to the view from abroad and its porous lines between journalists, publicists and political operatives.

Insomma, volano gli stracci. Quindi è un pezzo da leggere.

L’articolo di Horowitz su Alan Friedman, Paul Manford e Romano Prodi lo trovate qui

New York Times

Importanza

Non pensi di aver dato troppa importanza al cinema?

E’ come rimproverare Casanova di aver dato troppa importanza alle donne.

Enrico Ghezzi intervistato da Antonio Gnoli su Robinson (supplemento de la Repubblica) di oggi

E’ arrivata la prima crisi di Facebook

 

Facebook non è ancora maggiorenne. La creatura di Mark Zuckerberg, infatti, è nata il 4 febbraio del 2004. Ma nel mondo della società hi-tech 14 anni valgono quanto un’era geologica. Servizi che andavano per la maggiore quando Facebook ha mosso i primi passi ormai non esistono più. Qualcuno ricorda MySpace? Era il social network che sembrava avere il futuro più promettente. Poi è arrivato Facebook, molto meno creativo, ma enormemente più semplice da usare. E ne ha fatto polpette.

Questo per dire che ormai la società di Menlo Park è un gigante, anzi uno dei 5 giganti dell’hi-tech, insieme a Apple, Amazon, Netflix e Google. Le iniziali di questi gruppi fanno un acronimo molto aggressivo, per chi parla inglese: «Faang» («fang», con una «a» in meno, vuol dire «zanna»). La benzina di queste enormi società (Amazon e Apple ormai arrivano a una capitalizzazione di mille miliardi di dollari) non sono i profitti, ma la crescita. Qualche giorno fa Facebook ha ammesso che non crescerà più come prima. Ed è abbastanza normale, visto che ormai ha 2,5 miliardi di utenti. Ma i mercati non l’hanno presa bene: da qui il tonfo che ha fatto perdere alla società 120 miliardi di dollari. Ma è una crisi di crescita. Facebook vale il 18% della pubblicità digitale mondiale e ha due servizi – Instagram e WhatsApp – che finora contribuiscono solo marginalmente. Ma non sarà sempre così. E Facebook riprenderà a macinare record.

Editoriale della Gazzetta di Parma 28 luglio 2018