Il catenaccio di Trump ha evitato la disfatta

Il voto di metà mandato Usa è andato più o meno come avevano previsto i sondaggi: i democratici hanno conquistato la Camera con un buon margine, come accade di solito in questo tipo di elezioni al partito di opposizione; i repubblicani hanno conservato – e anzi aumentato – l’esile maggioranza che avevano al Senato. E anche questo era ampiamente previsto. La differenza tra il voto della Camera e quello del Senato dipende soprattutto dal fatto che, mentre la Camera viene rinnovata per intero ogni due anni, i seggi in palio al Senato sono solo un terzo di quelli totali e quest’anno la mappa elettorale favoriva i repubblicani piuttosto che i democratici. Anche la corsa per i governatori è andata come previsto: i democratici hanno vinto in molti Stati, ma la perdita per i repubblicani non è stata massiccia come poteva essere. Nelle sfide più seguite mediaticamente, quelle per la Georgia e quella per la Florida, poi, i repubblicani hanno tenuto e gli sfidanti democratici sono stati battuti anche se di misura.

In termini calcistici possiamo quindi dire che il «catenaccio» impostato da Donald Trump ha evitato una sconfitta netta del Grand Old Party (così viene chiamato il partito repubblicano). Il presidente ha, giustamente, dato per perso il Congresso e ha concentrato i suoi sforzi sui seggi più importanti del Senato e sulle battaglie di maggior spessore a livello governatoriale. Una strategia vincente che ha permesso di limitare le perdite. Una strategia che dimostra che Trump, con il suo stile comunicativo fiammeggiante e politicamente scorretto, è capace come nessun altro di portare alle urne e compattare i conservatori americani anche di fronte all’«onda azzurra» dei democratici.

Da oggi, però, si comincia già a impostare la campagna per le presidenziali del 2020. I democratici cercheranno di rallentare o bloccare il più possibile l’attività del presidente ora che hanno in mano la Camera che, tra l’altro, ha poteri di inchiesta molto ampi. Quindi per Trump sarà più difficile governare. Però il presidente in carica resta in ottima posizione per la vittoria, perché i democratici non hanno ancora una leadership chiara e il processo di scelta del candidato – con le primarie – potrebbe causare numerose lacerazioni. Resta da dire, comunque, che la personalità fiammeggiante di Trump capace di energizzare la propria base elettorale proprio per questo energizza anche l’opposizione che, in questo modo, ha meno bisogno di stimoli per andare al voto in modo massiccio. Quindi è probabile che tra due anni ci troveremo davanti a un altro referendum su Trump. A meno che dalle primarie democratiche non salti fuori un nuovo Barack Obama.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma dell’8 novembre 2018

«Allegre apocalissi» di Giorgio Triani

Il futuro è un tema ricorrente della riflessione del sociologo parmigiano Giorgio Triani. E’ nel titolo del suo ultimo libro – «Allegre apocalissi. Il (passato) futuro che ci attende». Ma è anche il fulcro della riflessione del suo libro precedente, «Il futuro è adesso. Società mobile e istantocrazia», scritto nel 2013.

Ed è strano questo interessarsi al tema in una società che ha smesso di interrogarsi sul futuro perché è sempre meno attenta al senso della storia, visto che le grandi narrazioni del progresso sono morte – o meglio sono immerse in un sonno profondissimo e stregato, come i dormienti della mitologia celtica – con la fine del secolo scorso. Non si tratta certo del futuro banale dei futurologi che proiettano matrici di possibilità su un tempo lineare facendoci baluginare quinte da fumetto come quelli dei «Pronipoti», la serie a cartoni animati di Hanna e Barbera.

Quindi che tipo di futuro è quello che prevede Triani? Non è un futuro escatologico da fine della storia. Anche perché la storia è già finita un paio di volte per poi ritornare, sempre sull’onda dell’ultimo saggio di Francis Fukuyama. E non è neppure quello delle «magnifiche sorti e progressive» irrise dal Leopardi, anche perché l’idea di progresso si è estinta. Eppure non è il futuro disperato dei capolavori distopici della nostra tradizione, lo specchio scuro e distorto – ma più vero in termine di bruciante realtà esperienziale – delle utopie che hanno affollato il ‘900. E’, piuttosto, un futuro disperatamente allegro. Un futuro che nasce da uno sguardo che vede i vincoli e li teme, ma al tempo stesso tiene conto delle possibilità che questo vincoli aprono e prova a immaginarsi la via stretta per superarli.

Una via che non sia quella del pensiero fossile della ribellione o dell’assoluto appiattimento alla nostra realtà iperveloce. E’ come se l’angelo benjaminiano, con le ali non più impigliate nella tempesta del progresso, avesse imparato a sorridere e, nella debole luce messianica di questo sorriso, le macerie ai suoi piedi, per un istante, fossero sul punto di ricomporsi.

Recensione pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 6 novembre 2018

Una Netflix italiana? Improbabile

Per Luigi Di Maio è un vero e proprio chiodo fisso. Ormai non si contano più le volte che il vicepremier afferma di «essere fermamente convinto che la prossima Netflix sarà italiana». L’ultima volta è accaduto in un intervento sul catalogo dei Mia, il Mercato internazionale dell’audiovisivo che si è tenuto a Roma dal 17 al 21 ottobre. Le ragioni di Di Maio sono la solita macedonia di argomentazioni da convegno sulla piccola e media impresa, basate su una presunta creatività italiana che – nel campo dell’audiovisivo – si nutre di una specie di nostalgia fossile per l’età dell’oro del nostro cinema. Quella che è finita con gli anni ’70, per intenderci. Per dare un’idea della prosa del ministro eccone un esempio: «Le industrie culturali del nostro Paese – scrive Di Maio -, anche grazie alla forza lavoro dell’indotto, possiedono pienamente il potenziale per realizzare questo progetto ambizioso e per innescare meccanismi virtuosi che condurranno alla nascita e allo sviluppo di campioni nazionali capaci di investire in nuovi modelli di business».

Peccato che il desiderio del vicepremier sia molto difficile da realizzare per non dire impossibile. Prima di tutto per un evidente problema di dimensioni di mercato: Netflix si rivolge a un’audience globale e cosmopolita che sostanzialmente parla inglese. Solo grazie a questo ha intrapreso un’ambiziosa strategia di espansione globale, andando ad occupare nicchie di mercato linguistico sempre più piccole: sulla piattaforma si possono trovare anche serie tv finlandesi (tra l’altro ben fatte), ma il grosso dei contenuti è in inglese, anche perché è difficile trovare in Finlandia qualcuno che non capisca l’inglese a parte le renne.

Ma mettiamo pure che si avveri un miracolo e che «la forza lavoro dell’indotto» italiana sia perfettamente in grado di costruire contenuti adatti ad un’audience globale – e quindi sostanzialmente in inglese, non in italiano con forte accento regionale come accade ora -, manca poi tutto il resto. Per esempio la capacità delle aziende di reinventarsi come è accaduto a Netflix che originariamente era un videonoleggio che inviava per posta Dvd agli utenti. Prima che il mercato si esaurisse, l’azienda ha cambiato pelle. Per non parlare del polmone finanziario che permette a Netflix di investire miliardi di dollari. Quale azienda italiana sarebbe in grado di emettere bond societari così ingenti con uno spread che viaggia sui 300 punti?

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 5 novembre 2018

Usa, il Midterm è un referendum su Trump

Tradizionalmente le elezioni politiche di midterm (quelle che si svolgono a metà del mandato presidenziale) non sono particolarmente partecipate. E tradizionalmente non favoriscono il presidente in carica. Ma quest’anno le cose potrebbero essere diverse. Nel senso che sicuramente le elezioni saranno molto partecipate, già ora è record nel voto anticipato, perché la figura di Donald Trump è molto divisiva e stimola all’azione. Ma non è detto che questo referendum sul presidente sia a lui sfavorevole. 
Le elezioni si terranno martedì prossimo, cioè il primo martedì di novembre come da tradizione.

Secondo i sondaggi – che però con Trump hanno già sbagliato una volta – il voto favorirà i democratici che dovrebbero riguadagnare la maggioranza alla Camera che viene interamente rinnovata. Discorso diverso per il Senato (che si rinnova solo per un terzo) che probabilmente rimarrà in mano ai repubblicani.

Ma Trump sta tentando il tutto per tutto per ribaltare il risultato. Di qui le affermazioni sempre più dure sull’immigrazione – con spot tv decisamente razzisti – e contro i diritti civili dei transgender. Fino alle affermazioni sull’abolizione – con decreto presidenziale – dello «Ius soli» che è garantito nel 14º emendamento della Costituzione Usa che è rigida come la nostra. Tutta carne rossa per il suo elettorato. La volta scorsa è stata una strategia vincente. Lo sarà anche stavolta?

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 2 novembre 2018

Dati come armi: Tim Cook lancia l’allarme

Non è facile di questi tempi trovare qualcuno che parli bene dell’Unione europea. Questa è un’epoca in cui qualunque tentativo di regolazione dell’attività umana viene sentito come un’insopportabile intrusione del legislatore nei rapporti tra individui. Eppure Tim Cook – l’erede di Steve Jobs alla guida di Apple – non ha avuto paura di lodare la Ue, anche se il contesto in cui tutto è avvenuto, una conferenza sulla privacy organizzata dall’Unione europea, ha certamente indirizzato la sua benevolenza.

Cook ha detto che serve un giro di vite anche negli Usa come quello che c’è stato a maggio in Europa, che, con il Gdpr – la normativa sul trattamento dei dati e sulla privacy -, è diventata «leader» tutela della privacy. Perché, ha detto, i dati personali sono «usati come armi contro di noi con efficienza militare», una vera e propria «sorveglianza» che finisce «solo per arricchire le società che li raccolgono». Cioè Google e Facebook che Cook, naturalmente, non ha citato. Sia perché era inutile, visto che tutti hanno capito l’allusione, sia perché non è fine dire male di aziende concorrenti.

Cook, ha difeso a spada tratta le decisioni di Apple che è attentissima alla privacy degli utenti. A volte sfidando i governi e il potere giudiziario che sempre più spesso chiedono di accedere al contenuto criptato nei device venduti dalla società. Ricevendo, almeno in prima istanza, un sonoro no. La crisi provocata dall’accumulo dei dati che noi spargiamo sulla rete e nei social «è reale, non è immaginata o esagerata», ha avvertito l’erede di Steve Jobs, portando a esempio il fatto che «malintenzionati o addirittura governi hanno approfittato della fiducia degli utenti per rendere più profonde le divisioni, incitare alla violenza e persino minare la nostra percezione condivisa di cosa è vero e cosa è falso».

I nostri «like», le nostre abitudini di navigazione, i nostri acquisti, le informazioni che lasciamo inavvertitamente tutte le volte che apriamo un profilo social o un account in un sito di e-commerce «consentono alle società di conoscerci meglio di noi stessi» e così gli algoritmi «possono bombardarci con contenuti sempre più estremisti, forgiando le nostre preferenze inoffensive sino a farle diventare granitiche convinzioni ideologiche». Insomma un mondo sempre più diviso in cui i «credenti» si affrontano a colpi di post o di tweet. In attesa di passare alle maniere forti nel mondo reale.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 29 ottobre

Usa, il rischio del terrorismo a pochi giorni dal voto

Negli Stati Uniti è tornata la paura dei pacchi bomba. Non è una paura inedita: basta pensare a Theodore Kaczynski, meglio noto come Unabomber, il terrorista solitario e coltissimo (laurea ad Harvard e PhD in matematica all’università del Michigan) che colpì più volte durante un periodo di quasi diciotto anni, provocando 3 morti e 23 feriti. Unabomber, nel suo delirio antitecnologico, colpiva quelli che pensava fossero gli agenti di una rivoluzione informatica che avrebbe privato gli americani della loro libertà.
Questa volta, invece, le bombe hanno bersagli più consueti: sono persone – tutti democratici – che, in qualche modo, si sono opposte a Donald Trump: Barack Obama, Hillary Clinton, il vice presidente Joe Biden, George Soros, il miliardario che è una specie di bestia nera dei movimenti di destra, l’ex ministro della giustizia Eric Holder e – udite, udite – anche Robert De Niro reo di non sopportare Trump. Le indagini sono in corso e si spera che in breve tempo si trovi il responsabile – o i responsabili – di questi atti di terrorismo.

Ma questo succede a pochi giorni dalla elezioni di Midterm, che si terranno martedì 6 novembre, e dimostra l’asprezza di questa campagna elettorale che, se possibile, è anche peggio di quella delle ultime presidenziali. Ora bisognerebbe abbassare i toni. Ma nell’America attuale è un pio desiderio. E forse il problema è proprio questo.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 26 ottobre 2018

Alitalia e il ritorno dello Stato imprenditore

A volte sono i piccoli slittamenti lessicali che segnalano la fine di un’epoca. Prendiamo i grandi gruppi italiani nei quali lo Stato ha ancora una partecipazione, come Eni, Enel, Terna, Leonardo, Snam e altri. Da un momento all’altro queste aziende sono passate dall’aspirazione ad essere «public company», cioè gruppi quotati in Borsa con un azionariato diffuso e gestite da manager che rendono conto ai mercati, alla dura realtà di essere tornate «aziende di stato». Gruppi a cui si può chiedere di accelerare i piani di sviluppo non per esigenze di mercato, quanto piuttosto perché il governo si è impegnato a raggiungere un ambizioso target di crescita del Pil.
Lo stesso è accaduto per Alitalia che sta per essere rinazionalizzata – diciamo così – attraverso l’intervento di Ferrovie e con i polmoni finanziari di Cassa Depositi e prestiti. Per i contribuenti non è un affare, visto che è un’azienda che senza una dura ristrutturazione – e con la perdita di posti di lavoro – non produce utili, ma perdite che saremo tutti chiamati a ripianare come abbiamo fatto finora. Ma a questo punto perché, come ha chiesto provocatoriamente l’altro ieri Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, non fare un bel referendum per decidere se lo Stato debba tornare a gestirla? E soprattutto il prossimo traguardo sarà quello di tornare a produrre panettoni?

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 20 ottobre 2018

Per Google una difficile maturità

Google ha appena compiuto 20 anni. La compagnia di Mountain View è stata, infatti,  fondata da Larry Page e Sergey Brin il 4 settembre 1998 anche se, da molti anni, la data ufficiale del «compleanno» è stata spostata al 27 settembre. Allora – come scritto in un post celebrativo sul blog della societa in cui si annunciano miglioramenti alle ricerche online – l’obiettivo «era quello di organizzare le informazioni del mondo e renderle accessibili e utili. Sembrava una missione incredibilmente ambiziosa all’epoca, anche considerando che nel 1998 il web consisteva in appena 25 milioni di pagine, grosso modo l’equiva- lente dei libri in una piccola biblioteca». Un obiettivo riuscito: Google è diventato il motore di ricerca più utilizzato al mondo grazie all’efficienza dei suoi algoritmi.

Ma con la crescita sono iniziati i problemi. La società di Mountain View delle origini aveva una fortissima componente etica oltre che obiettivi utopistici. Il motto aziendale, spaventosamente semplice e spaventosamente impegnativo, era «Don’t Do Evil», semplicemente «Non fare il male». Ma l’afflato originario fa fatica a sopravvivere in una struttura aziendale profondamente cambiata. E il motto stesso è scomparso dal codice etico della corporation.

Prendiamo il caso della falla nella sicurezza di Google+, lo sfortunato social network dell’azienda, di cui siamo stati informati la settimana scorsa. L’errore – molto grave – ha consentito agli sviluppatori esterni alla società di vedere le informazioni sui profili di mezzo milione di utenti. Fra queste nomi, indirizzi email e occupazione. Il problema software ha interessato un lungo arco temporale: dal 2015 a quest’anno, quando è stato scoperto. Il che vuol dire che ha consentito a 448 app di vedere le informazioni sensibili degli utenti. Un caso della stessa portata di quello di Cambridge Analytica che ha messo sotto scacco Facebook. Ebbene la società non ha avvertito nessuno della breccia e solo dopo che il Wall Street Journal ha divulgato l’informazione ha annunciato di aver chiuso agli utenti «privati» Google+ che molto presto sarà chiuso. Un comportamento quasi omertoso che tra l’altro potrebbe causare problemi seri alla società anche se il «bug» è stato riparato prima della partenza della nuova legge sulla privacy europea. Ma che dimostra che Google ormai è una corporation come le altre.

Analisi uscita sulla Gazzetta di Parma del 15 ottobre 2018

Ma queste non sono flat-tax e reddito di cittadinanza

«Le parole sono importanti», diceva Michele Apicella, il personaggio interpretato da Nanni Moretti in «Palombella rossa». La confusione linguistica ci arriva, di solito, dai mezzi di comunicazione. A volte, però, ci pensano le istituzioni. Prendiamo, per esempio, i due concetti chiave della manovra: la flat-tax e il reddito di cittadinanza. La flat-tax è una tassa ad aliquota unica che non tiene conto del reddito. E’ un sistema che premia chi è ricco e che, in teoria, serve soprattutto a fare in modo che la ricchezza liberata aiuti l’economia a crescere. L’idea di fondo è che le persone siano meglio dello Stato nell’allocazione delle risorse. Quindi meno Stato e più mercato. Cosa c’entri questo con la cosiddetta flat-tax al- l’italiana con più aliquote e che deve essere progressiva – perché è questo che prescrive la Costituzione – non si sa.

Stessa cosa per il reddito di cittadinanza. L’idea di fondo, siamo in piena utopia, è dare una certa cifra a tutti i cittadini. Questa somma dovrebbe servire a comperare sul mercato i vari servizi ora appannaggio dello Stato: dalla sanità all’istruzione. Anche qui il concetto di base è che il mercato è più efficiente dello Stato. Solo che il «reddito di cittadinanza» italiano è un misto tra una misura a sostegno dell’occupazione e una misura di assistenza. Elargita, per di più, con criteri da Stato etico. Un modo per retribuire i poveri facendoli restare poveri. Anche qui la distanza tra la realtà italiana e la teoria è siderale.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma dell’8 ottobre 2018

La cyber guerra tra gli Stati è già iniziata

E’ stata una settimana piena di notizie sul fronte della guerra cibernetica che si sta combattendo tra le grandi potenze, cioè Russia, Cina e il blocco occidentale (Stati Uniti e paesi dell’Occidente). Prima l’Olanda ha accusato la Russia di avere messo a segno un attacco contro l’Opac, l’Agenzia per la proibizione della armi chimiche, che ha sede all’Aja, e ha convocato l’ambasciatore russo dopo aver espulso quattro agenti dei servizi segreti militari russi (Gru). Accuse alla Russia sono arrivate anche da Gran Bretagna e Australia, secondo le quali il Gru sarebbe dietro un’ondata di attacchi informatici «indiscriminati e temerari» contro istituzioni, imprese e media. Poi è stata la volta degli Stati Uniti: Il dipartimento di Giustizia Usa, infatti, ha incriminato sette appartenenti al solito Gru per una sfilza di accuse che vanno dagli attacchi al Comitato olimpico all’avvelenamento della ex spia russa Serghiei Skripal.

Ma non è finita qui. Un articolo di Bloomberg BusinessWeek ha accusato la Cina di aver usato piccolissimi chip per infiltrarsi nelle società tecnologiche americane, incluse Apple e Amazon. Grazie ai chip le spie cinesi sarebbero riuscite a raggiungere circa 30 aziende americane. I due giganti del web hanno smentito categoricamente, ma i dubbi restano.

E’ di qualche tempo fa, poi, la scoperta – e la divulgazione – dell’arsenale di «cyberarmi» usate dalle spie Usa. La morale di tutto questo è una sola: gli hacker più pericolosi sono i governi.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma dell’8 ottobre 2018