Recensione di «L’animale che mi porto dentro» di Francesco Piccolo

Sulla copertina di «L’animale che mi porto dentro», l’ultimo romanzo di Francesco Piccolo (Einaudi, 19,5 euro) campeggia una foto di Mario De Biasi, forse la sua foto più famosa, anche non la più bella, visto se De Biasi è stato uno dei più prolifici e bravi fotografi italiani. Il titolo è «Gli italiani si voltano» e ritrae una giovanissima Moira Orfei che, in un abito bianco molto fasciante, si dirige verso Galleria Vittorio Emanuele a Milano sotto lo sguardo di decine di maschi desiderosi. Correva l’anno 1954. In realtà, però, forse la foto più adatta al contenuto del libro è un’altra, egualmente bella e famosa, ma ancora più cruda nello svelamento delle dinamiche del desiderio maschile dell’Italia degli anni ‘50. Il suo titolo è «American Girl in Italy» ed è ambientata nel 1951 a Firenze: una ragazza passa velocemente su un marciapiede mentre un corridoio di uomini la guarda e commenta. Non è vestita in modo provocante, ma è chiaramente straniera, alta e altera. Oggetto del desiderio di tutti. Uno degli uomini ha le mani in tasca e, è abbastanza evidente, si sta toccando il pene, il «pirellino», direbbe Piccolo che cita Laura Antonelli in «Malizia».  La foto uscì, censurata, su «Cosmopolitan». La modella era Ninalee «Jinx» Allen Craig e la fotografa era Ruth Orkin.

Ecco il nocciolo del libro di Piccolo è tutto qui. Nel rapporto della generazione di maschi italiani nati negli anni ’60 – quella dell’autore e la mia – con i loro padri – quelli delle foto – e, soprattutto, con la propria vita sessuale un po’ modellata su quella della generazione precedente, un po’ modificata dalla rivoluzione sociale che era in corso in quegli anni in Italia. Piccolo è brutale nel descrivere la sessualità del suo personaggio, diviso tra l’«animale» – ipostatizzato nel suo organo sessuale, il «pirellino» o, nei momenti di maggior foga, semplicemente il «cazzo» – e il suo sentimentalismo. E così Francesco – il romanzo è una finta autobiografia – si strugge per la perdita – lui felicemente sposato e con due figli – dell’amante bellissima e con il seno perfetto, ma anche e soprattutto per il fatto che le ha prestato un libro che aveva regalato alla madre nell’infanzia con tanto di dedica.Libro che non rivedrà mai più.

La parte migliore del libro – a parte la filologica ricostruzione dell’immaginario erotico della mia generazione: dalle commedie pecorecce ai fumetti quasi porno di una sessualità soprattutto parlata e quasi mai agita – risiede nelle vicissitudini di questo Nathan Zuckerman adolescente di Caserta che, pieno di desiderio, fatica non poco a raggiungere il suo scopo, cioè «scopare». 

Troppo sentimentale, troppo attento ai vincoli della morale e allo stesso tempo troppo rabbioso, troppo abitato da una fame atavica, in senso proprio e figurato, per essere preso dalla ragnatela romantica che lui stesso ha costruito. Sono questi momenti, scene da una specie di poema cavalleresco provenzale – dove il desiderio è sempre differito – affrontati però con un piglio comico-carnevalesco bachtinianoche fanno ricordare l’opera di Piccolo che alla fine non è altro che l’educazione sentimentale di uno che – come quelli della mia generazione – non andrebbe mai dal parrucchiere, ma semmai dal barbiere. Visto che il parrucchiere è da femmine. E il barbiere da maschi. Una virilità fragilissima e rabbiosa che vive di contrapposizioni e che era dei nostri padri. E della quale, pur odiandola, non si riesce a fare a meno.

Recensione pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 15 dicembre 2018

Saipem vittima della guerra elettronica?

La notizia è questi passata inosservata – non in Borsa visto che il titolo venerdì scorso ha perso il 4,59% – ma Saipem, all’inizio della settimana scorsa, è stata oggetto di un pesantissimo attacco hacker. Saipem – acronimo di «Società Anonima Italiana Perforazioni E Montaggi» – fornisce, come recita Wikipedia, «servizi per il settore petrolifero. La società è specializzata nella realizzazione di infrastrutture riguardanti la ricerca di giacimenti di idrocarburi, la perforazione e la messa in produzione di pozzi petroliferi e la costruzione di oleodotti e gasdotti». E questo, come vedremo, è un dato interessante visto che potrebbe farci capire perché è stata attaccata.

Ma andiamo con ordine. Saipem ha fatto sapere – tramite Bloomberg, una delle più importanti agenzie di stampa economiche – di essere stata oggetto di un attacco informatico. In sintesi il «malware», cioè il virus informatico utilizzato, ha colpito circa 400 server della società basati in Medio Oriente (Emirati, Arabia Saudita e Kuwait) India, Scozia (Aberdeen) e, in modo limitato anche in Italia. Sempre secondo la società petrolifera italiana l’attacco ha avuto origine da Chennai in India, anche se non è detto che questo sia il punto di partenza dell’operazione. Accade spesso, infatti, che gli hacker costruiscano una falsa pista. Ma la cosa più interessante è il tipo di virus utilizzato. Si tratta, infatti, di una variante del «malware» Shamoon che è decisamente pernicioso, visto che è un «wiper», cioè cancella tutti i dati e le partizioni dei dischi dei computer attaccati, rendendoli di fatto inservibili, e, soprattutto, molto raro. «Shamoon (a volte chiamato Disttrack) – scrive Carola Frediani nella sua informatissima newsletter «Guerre di rete» – è stato identificato per la prima volta nel 2012 in un pesante attacco contro Saudi Aramco, tra le maggiori compagnie petrolifere al mondo, di proprietà del governo saudita (e corposo cliente di Saipem)». Un’altra variante – Shamoon 2 – è stata usata per attaccare, nel 2016, ancora una volta le industrie petrolifere saudite e pure la banca centrale del Regno.

Ma non è finita qui perché, negli stessi giorni dell’offensiva contro Saipem, sono state attaccate anche aziende degli Emirati e ancora dell’Arabia Saudita. I principali indiziati nel 2012 e nel 2016 furono i servizi iraniani. E se anche questa volta le piste investigative punteranno verso l’Iran l’azienda italiana si troverà nel bel mezzo di una vera e propria guerra elettronica tra Stati.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 17 dicembre 2018

Cherif Chekatt, un criminale diventato terrorista

Quella del criminale comune diventato terrorista è una storia che si ripete. Almeno in Francia, visto che la metà dei terroristi islamici francesi ha precedenti penali per reati comuni. Ma la storia di Cherif Chekatt, l’attentatore di Strasburgo ucciso ieri sera, è paradigmatica.  Checkatt, riporta «Le Monde», è uno dei 12 tra fratelli e fratellastri, sorelle e sorellastre di una famiglia problematica e decisamente allargata molto conosciuta a Strasburgo. Una battuta che gira tra gli avvocati della città è questa: «Non hai ancora difeso un Chekatt? Beh, prima o poi ti capiterà». Cherif ha un pedigree criminale con i fiocchi: 67 indagini per reati contro la persona o il patrimonio e 27 condanne.

Ma a un certo punto Cherif, il criminale Cherif, si radicalizza. Non si tratta di una conversione radicata in un genuino sentimento religioso, quanto piuttosto di un’adesione ai dettami di una stretta pratica religiosa legata a un’ideologia estremista piena di odio per gli infedeli. Cherif, il criminale Cherif, diventa Cherif l’islamista, il ragazzo che mostra ben evidente sulla fronte la «zebiba», il callo della preghiera dei musulmani osservanti.

Ora è pronto a incanalare il suo odio nichilista, la molla scatenante della devianza e che al tempo stesso la alimenta, verso un bersaglio preciso: gli «infedeli». Così parte la corsa contro il tempo per cercare di disinnescare questa bomba umana. Un lavoro di intelligence che, purtroppo, non è servito ad evitare la strage.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 14 dicembre

Europa amara per Facebook

Il 2018 è stato forse l’anno peggiore per Facebook che, dal giorno della fondazione (nel 2004, giova ricordarlo perché ormai il social network è talmente potente che ci si scorda che ha solo 14 anni di vita), non si è mai trovato in una situazione tanto delicata. E anche le ultime settimane sono state piene di dolori e problemi per l’azienda le cui azioni – come tutte quelle del settore tecnologico, va detto – sono in calo costante dopo i picchi di metà anno.

Le ultime disavventure partono dal rifiuto di Mark Zuckerberg di presentarsi davanti alla Commissione per il Digitale e i Media della Camera dei Comuni britannica che indaga su «disinformazione e fakenews». La sedia vuota con il nome del fondatore del social network di fonte a quelle occupata dai deputati di 9 Paesi invitati a presenziare all’audizione ha fatto il giro del web. E ha sporcato un po’ l’immagine da bravo ragazzo di Zuckerberg, mostrandone l’arroganza da navigato capitano d’industria. Ma questa non è la fine della storia perché il presidente della Commissione, il conservatore Damian Collins, ha pubblicato alcuni documenti, fatti da lui stesso sequestrare d’autorità a un manager di passaggio a Londra, da cui sembrano emergere nuovi indizi di vecchie pratiche di abuso dei profili degli utenti. Le 200 pagine di email interne svelate evidenziano in particolare la condivisione – si sospetta a pagamento – di dati personali di utilizzatori con altre aziende. Facebook ha smentito tutto, però è l’ennesima tegola che cade sulla testa di Zuckerberg.

Ma non è finita qui. Perché anche in Italia si è aperto un nuovo fronte. Infatti l’Antitrust ha stabilito che la società americana dovrà pagare due multe per un valore complessivo di 10 milioni di euro (il massimo edittale) per aver utilizzato a fini commerciali i dati dei suoi utenti senza che questi ne fossero consapevoli. Facebook si è difeso notando che «le persone hanno il possesso e il controllo delle loro informazioni personali» e ha promesso di collaborare con l’Authority italiana. Ma anche in questo caso conta di più l’effetto sul brand delle accuse rispetto all’entità del danno monetario. E il punto è proprio questo: Zuckerberg non sembra avere una strategia per confrontarsi con i decisori europei. E qui non basta avere la faccia del bravo ragazzo. O perlomeno, la faccia aiuto, ma è meglio avere un esercito di lobbisty come quelli assunti per tenere a bada il Congresso Usa.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 10 dicembre 2018

Recensione de «Gli Spaiati» di Ester Viola

E’ probabilmente falso dire che «il mare non bagna Napoli» come afferma Anna Maria Ortese nel titolo della sua raccolta di più famosa. È sicuramente vero che il mare non bagna Milano. Tuttalpiù, per i weekend d’estate, c’è Santa Margherita. Di questo Olivia Marni – nel nuovo libro di Ester Viola, «Gli spaiati», Einaudi, 2018, 17 euro – si rende conto subito nei primi giorni a Milano. Poi c’è freddo, c’è la nebbia (non quella di Benevento, d’accordo), si mangia male e si spende troppo in locali pretenziosi e piccoli come scatole di scarpe.

E comunque mica l’ha scelto Olivia tutto questo freddo. Semplicemente si è trasferita perché si è trasferito Luca Ardenghi, il suo capo e ora il suo compagno. E nemmeno Luca ha deciso autonomamente il trasloco: è arrivato a Milano perché la sua ex moglie, lei sì, ha deciso di cambiare città e vita. Oltre che stato civile. Ci sono i bambini di mezzo e Luca è (cioè, si considera) un buon padre, quindi «trasloco a Milano» come scelta obbligata. Così Olivia, un po’ come le salmerie di Napoleone che seguono l’esercito, il quale a sua volta si adegua alle decisioni dell’imperatore, si ritrova in un nuovo studio e in una nuova città, anche se il lavoro è sostanzialmente lo stesso, cioè quello del libro precedente: avvocato divorzista.

E naturalmente Olivia ha un nuovo status: quello di accoppiata in un mondo di spaiati, cioè di persone sole, che hanno lasciato o che sono state lasciate; che non hanno trovato o non sono state trovate, dolci mele, alte sul ramo più alto. La storia dell’amore spaiato è sempre quella ed è talmente così da sempre che per capirla ti aiuta anche Platone. Come racconta – o meglio fa raccontare nel «Simposio» a Aristofane – è tutta colpa di Zeus. E un po’ della hybris degli umani che quando si tratta di prendere d’assalto l’Olimpo son sempre pronti. Così Zeus con un fulmine li divide tutti. Perché, mi sono dimenticato di dirlo, all’epoca noi umani eravamo tondi, con quattro braccia, quattro gambe, due teste e due organi sessuali (si presume anche quattro reni e quattro polmoni, ma non è specificato). Il succo è questo: da allora noi umani siamo alla ricerca della nostra metà perduta. Il desiderio è questo anelare all’unità.

Solo che alcuni alla fine non la trovano la metà a cui ricongiungersi. E in effetti non è facile. Statisticamente, intendo. Così stanno da soli, struggendosi. O stanno in coppia, ma non troppo sicuri, cercando di darsi un tono, come Olivia che è quasi kierkegaardiana nella sua decisione etica di stare attaccata a Luca, ripetendo giorno per giorno la sua scelta. Bambini compresi.

Eppure, per dirla sempre con Platone, che questa volta fa parlare Diotima, Eros, l’Amore, è figlio di Penìa (la Povertà) e Pòros (la Ricchezza). É sazio, ma sempre affamato. É ricco, ma sempre povero. É appagato, ma sempre in cerca di qualcosa d’altro. Quindi aspettiamoci sviluppi a breve. Magari un ritorno a Napoli. Al suo mare, al suo vulcano, ai suoi cornetti. Del resto è il luogo dove accade tutto anche in questo libro così (fintamente) milanese.

Recensione pubblicata sulla Gazzetta di Parma del primo dicembre 2018

Il governo è nuovo, le scuse sono vecchie

E’ vero che non si vive solo di «numerini», come ci ricordano un giorno sì e l’altro pure gli esponenti del governo, ma quelli resi noti ieri dall’Istat sono «numerini» preoccupanti. Infatti certificano che l’economia italiana è in frenata nel terzo trimestre di quest’anno per la prima volta dal 2014. Si tratta di una variazione minima (-0,1% rispetto al trimestre precedente), ma vale per l’inversione del trend di crescita. Così la variazione acquisita per il 2018 è pari a +0,9% (al posto del +1,2% delle stime). Ma non è finita qui. Infatti anche i «numerini» del mercato del lavoro non sono esaltanti. La disoccupazione a ottobre, infatti, è al 10,6% con una crescita di 0,2 punti su settembre. La disoccupazione giovanile, poi, sale ancora di più (è al 32,5%).

 Come si vede dati non drammatici, ma sicuramente preoccupanti e che, sopratutto, indicano una tendenza negativa che presto potrebbe sfociare in una recessione. Ci sono, poi, molti dubbi che una manovra, come quella impostata dal governo, tutta puntata sulle spese sociali e non sugli investimenti, possa invertire il trend.

Però l’esecutivo sembra essere fin troppo ottimista con il premier Conte che dice che «il Pil verrà fatto crescere» e con i vicepremier che se la prendono, come da copione, con l’operato dei governi precedenti. Eppure l’esecutivo è in carica da mesi e non da pochi giorni. E tutto questo conferma il fatto che in Italia cambia tutto, ma nessuno si prende mai la responsabilità di niente.

Editoriale pubblicato il primo dicembre 2018 sulla Gazzetta di Parma

Lo scorporo della rete, ultimo atto del dramma Telecom

Chissà come se la ride, su nel cielo, il compianto Angelo Rovati, l’ex cestista amico e consigliere di Romano Prodi allora premier, che per primo presentò un progetto – il famoso e famigerato «piano Rovati» – per scorporare la rete telefonica da Tim che allora si chiamava ancora Telecom Italia. Il piano si proponeva di rimettere in discussione la proprietà della rete fissa di Telecom, per ironia della sorte privatizzata dallo stesso Prodi nel 1998. E privatizzare con la rete, il suo asset principale. Le reazioni furono durissime. Marco Tronchetti Provera parlò di «stalinismo» e il centrodestra diede battaglia in Parlamento per l’ingiustificata interferenza della mano pubblica negli affari di una società privata. Naturalmente non se ne fece niente. Correva l’anno 2006 e Rovati – che poi morì per un tumore – per questo perse il posto. Anche Tronchetti Provera alla fine uscì da Telecom, oberata dai debiti di due «leveraged buy out» consecutivi, il suo e quello precedente di Roberto Colaninno e dei «capitani coraggiosi» di dalemiana memoria in quella che forse è stata la più sfortunata tra le grandi privatizzazioni italiane, visto che ha generato solo perdite in conto capitale per gli azionisti e dividendi avari, se non inesistenti. E ha prodotto una società talmente fragile da non essere in grado di investire il dovuto in un mercato ipercompetitivo.

Lo scorporo fu tentato anche da Franco Bernabè, allora ad della società telefonica, che però incontrò la resistenza di quello che era il socio maggioranza, cioè Telefonica. E anche in questo caso il progetto naufragò per poi tornare, ciclicamente, in superficie ogni volta che i traballanti assetti di Tim cambiano, modificando a cascata strategie e ponti di comando. Ora sembra che sia arrivata la volta buona, anche se non si può mai dire, visto che, come abbiamo visto, si tratta di una storia lunga e tortuosa. Il soggetto con cui sposare Tim è stato trovato, cioè Open Fiber, società fortemente voluta dal governo; la defenestrazione rituale dell’ad, c’è già stata, visto che Amos Genish, espressione dell’ex socio di maggioranza, cioè Vivendi, è stato cacciato; il nuovo ponte di comando è già stato approntato dai nuovi soci forti, cioè l’alleanza tra il fondo speculativo Elliott, Cassa Depositi e Prestiti e alcuni fondi italiani e stranieri, e il nuovo capitano, Luigi Gubitosi, si è insediato. La strada è stata spianata dall’attuale governo, ma, se vogliamo dirla tutta, era stata ampiamente preparata dal governo precedente a trazione Pd che aveva deciso di aiutare l’assalto di Elliott ai traballanti asset di Tim, grazie all’intervento di Cdp. Era naturale che Elliott, un «fondo locusta» che spezza le aziende decotte per poi rivenderle a pezzi, cercasse lo scorporo della rete. E’ piuttosto ipocrita stupirsene ora, come fa la minoranza che solo pochi mesi fa era maggioranza. Con il senno di poi Telecom non andava privatizzata con la rete. Ma senza rete non avrebbe fatto abbastanza cassa e c’era da entrare nell’euro. E così la scelta fu obbligata. Quelli che ci perderanno sono al solito gli azionisti – soprattutto quelli piccoli che non hanno ancora venduto un titolo da sempre in caduta libera -, ma anche questa è una tradizione nel caso di Telecom Italia-Tim. Resta da dire che è bizzarro che questa grossa rivoluzione sia possibile grazie a un emendamento – come pare, visto che se ne discuterà proprio stasera – e non grazie a un provvedimento di più largo respiro, ma bisogna accontentarsi.

I vantaggi di una sola rete di fibra ottica, capace di portarla fino alla porta del condominio, sono evidenti. Si potrà fare a meno delle duplicazioni e la cablatura del Paese andrà molto più velocemente, preparandolo alla nuove sfide della manifattura 4.0, dell’Internet delle Cose (IoT), delle nuove frontiere della distribuzione dei contenuti. I problemi sono due: uno è occupazionale, visto che si rischiano esuberi tra il lavoratori di Tim che sono già stati «limati» a più riprese. L’altro è finanziario, visto che, per remunerare gli investimenti, i costi di connessione saliranno. E non è detto che si riesca a convincere gli italiani, finora piuttosto tiepidi, che a loro tutta questa connettività serva a qualcosa.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 26 novembre

Brexit, la May si è cacciata in una strada senza uscite

«There will be difficult days ahead», «Abbiamo davanti giorni difficili», titolava ieri mattina il «Daily Telegraph», il più conservatore tra i grandi giornali inglesi riprendendo una frase profetica pronunciata la sera prima da Theresa May presentando la bozza di accordo per la Brexit. E i «giorni difficili» per la May sono iniziati subito: con le dimissioni a valanga nel governo, con la sfida ormai pubblica alla sua leadership all’interno del partito conservatore e con la conclamata mancanza di una maggioranza parlamentare, visto che gli unionisti nordirlandesi hanno ritirato il loro appoggio al governo.

 Le dimissioni sono pesantissime: ormai se ne sono andati in sette, tra cui il ministro e il sottosegretario alla Brexit (si tratta della seconda sostituzione per questa carica), così come il ministro per l’Irlanda del Nord, la persona che si sarebbe trovata a gestire la vera «patata bollente» cioè la questione del confine-non confine tra Irlanda del Nord e Irlanda. Per non parlare della mozione di sfiducia tra i tories che probabilmente troverà i voti necessari.

Ma i problemi non sono solo all’interno dei conservatori. Le 585 pagine della bozza di trattato, infatti, sono un pasticcio difficilmente digeribile dall’opposizione e che, quindi, difficilmente sarà digerito in Parlamento. Perciò la prospettiva più probabile è quella di un’uscita senza accordi. Una tragedia. Oppure quella di un nuovo referendum. Ma questa rimane l’ipotesi meno realistica. Purtroppo.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 16 novembre 2018

L’annus orribilis di Facebook

«Delay, Deny and Deflect», cioè, «ritardare, negare e sviare»: questa è stata, secondo il New York Times, la strategia che i vertici di Facebook – Mark Zuckerberg e Sheryl Sandeberg, l’amministratore delegato e la chief operating officer – hanno usato per cercare di uscire dalla profonda crisi del popolare social network. I due, secondo l’inchiesta del giornale newyorkese, erano troppo concentrati sulla crescita della loro creatura e così hanno ignorato i segnali d’allarme e poi cercato di nasconderli. «In alcuni dei momenti critici negli ultimi tre anni», mette in evidenza il New York Times sulla base di interviste con una cinquantina di dipendenti ed ex dipendenti di Facebook, i due al vertice dell’azienda «erano distratti da progetti personali e così passavano le decisioni sulla sicurezza e quelle riguardanti la politica a dei sottoposti». Poi, come detto, una volta combinato i pasticci – cioè, per citare solo gli scandali più gravi, il tentativo dei russi di condizionare le presidenziali Usa del 2016 grazie al social network e la profilazione «sporca» attuata da Cambridge Analytca – i due hanno ripetutamente negato, arrivando a sviare l’attenzione dai problemi della società alimentando la disinformazione, anche quella contro George Soros assoldando per questo una società di pubbliche relazioni specializzata.

Naturalmente la società e i vertici hanno respinto tutte le accuse che Zuckerberg ritiene «semplicemente false». Il Cda della società, invece, parla di «numerose imprecisioni» nelle ricostruzioni, e mette in evidenza i passi in avanti compiuti nei controlli, anche sul fronte dei discorsi di incitamento all’odio e ribadisce di aver chiesto allo stesso Zuckerberg e alla Sandberg un’azione più rapida sulle interferenze russe, ritenendo però «ingiusto» pensare che questi ultimi ne fossero a conoscenza.

Con questi chiari di luna non c’è da stupirsi se il morale dei dipendenti del social network sia basso, come certifica un sondaggio riportato dal Wall Street Journal. Ma questo è il problema minore perché ormai negli Stati Uniti si chiede apertamente, da parte dei media e del ceto politico, una legge per regolamentare l’attività dei social network e probabilmente non basterà più la faccia da bravo ragazzo di Zuckerberg che recita il «mea culpa» per evitare che succeda.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 19 novembre 2018

La politica ha perso il significato delle parole

E’ stato un fine settimana in crescendo. Prima c’è stato il battibecco tra il sindaco di Milano Beppe Sala e il vicepremier Luigi Di Maio sulla chiusura domenicale delle attività economiche. Sala con spirito polemico molto milanese – e con un po’ di sicumera, anch’essa molto milanese – ha invitato il governo a chiudere i negozi ad Avellino e a non rompere «le palle» – altra espressione molto milanese – alla capitale industriale (e morale, aggiungerebbero i milanesi) del Paese.

Luigi Di Maio – che non è milanese, ma campano – se l’è presa. E forse non a torto. Ma al posto di far notare i luoghi comuni di Sala («A Milano si lavora, ad Avellino si sonnecchia») ha detto che il sindaco è un «fighetto». E per rendere più pepato l’epiteto ha aggiunto «del Pd». E dire che Sala ha decine di anni di carriera da manager alle spalle, cosa che non si può dire dell’azzimatissimo Di Maio.

Ma l’assurdo l’abbiamo raggiunto ieri, quando Matteo Salvini ha detto all'(ex) alleato Silvio Berlusconi di smettere di lamentarsi come un «frustrato di sinistra», trasformando l’uomo che – parole sue – si è sempre battuto con il sole in tasca contro il comunismo in un vecchio brontolone. E di sinistra.

Il teatrino della politica ha sempre avuto i suoi riti e le sue parole di legno, autoreferenziali e staccate dalla realtà, ma siamo arrivati oltre il limite di guardia. Però vedrete che anche di questo daranno la colpa ai giornalisti.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 12 novembre 2018