«Le parole sono importanti», diceva Michele Apicella, il personaggio interpretato da Nanni Moretti in «Palombella rossa». La confusione linguistica ci arriva, di solito, dai mezzi di comunicazione. A volte, però, ci pensano le istituzioni. Prendiamo, per esempio, i due concetti chiave della manovra: la flat-tax e il reddito di cittadinanza. La flat-tax è una tassa ad aliquota unica che non tiene conto del reddito. E’ un sistema che premia chi è ricco e che, in teoria, serve soprattutto a fare in modo che la ricchezza liberata aiuti l’economia a crescere. L’idea di fondo è che le persone siano meglio dello Stato nell’allocazione delle risorse. Quindi meno Stato e più mercato. Cosa c’entri questo con la cosiddetta flat-tax al- l’italiana con più aliquote e che deve essere progressiva – perché è questo che prescrive la Costituzione – non si sa.

Stessa cosa per il reddito di cittadinanza. L’idea di fondo, siamo in piena utopia, è dare una certa cifra a tutti i cittadini. Questa somma dovrebbe servire a comperare sul mercato i vari servizi ora appannaggio dello Stato: dalla sanità all’istruzione. Anche qui il concetto di base è che il mercato è più efficiente dello Stato. Solo che il «reddito di cittadinanza» italiano è un misto tra una misura a sostegno dell’occupazione e una misura di assistenza. Elargita, per di più, con criteri da Stato etico. Un modo per retribuire i poveri facendoli restare poveri. Anche qui la distanza tra la realtà italiana e la teoria è siderale.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma dell’8 ottobre 2018