Chissà come se la ride, su nel cielo, il compianto Angelo Rovati, l’ex cestista amico e consigliere di Romano Prodi allora premier, che per primo presentò un progetto – il famoso e famigerato «piano Rovati» – per scorporare la rete telefonica da Tim che allora si chiamava ancora Telecom Italia. Il piano si proponeva di rimettere in discussione la proprietà della rete fissa di Telecom, per ironia della sorte privatizzata dallo stesso Prodi nel 1998. E privatizzare con la rete, il suo asset principale. Le reazioni furono durissime. Marco Tronchetti Provera parlò di «stalinismo» e il centrodestra diede battaglia in Parlamento per l’ingiustificata interferenza della mano pubblica negli affari di una società privata. Naturalmente non se ne fece niente. Correva l’anno 2006 e Rovati – che poi morì per un tumore – per questo perse il posto. Anche Tronchetti Provera alla fine uscì da Telecom, oberata dai debiti di due «leveraged buy out» consecutivi, il suo e quello precedente di Roberto Colaninno e dei «capitani coraggiosi» di dalemiana memoria in quella che forse è stata la più sfortunata tra le grandi privatizzazioni italiane, visto che ha generato solo perdite in conto capitale per gli azionisti e dividendi avari, se non inesistenti. E ha prodotto una società talmente fragile da non essere in grado di investire il dovuto in un mercato ipercompetitivo.

Lo scorporo fu tentato anche da Franco Bernabè, allora ad della società telefonica, che però incontrò la resistenza di quello che era il socio maggioranza, cioè Telefonica. E anche in questo caso il progetto naufragò per poi tornare, ciclicamente, in superficie ogni volta che i traballanti assetti di Tim cambiano, modificando a cascata strategie e ponti di comando. Ora sembra che sia arrivata la volta buona, anche se non si può mai dire, visto che, come abbiamo visto, si tratta di una storia lunga e tortuosa. Il soggetto con cui sposare Tim è stato trovato, cioè Open Fiber, società fortemente voluta dal governo; la defenestrazione rituale dell’ad, c’è già stata, visto che Amos Genish, espressione dell’ex socio di maggioranza, cioè Vivendi, è stato cacciato; il nuovo ponte di comando è già stato approntato dai nuovi soci forti, cioè l’alleanza tra il fondo speculativo Elliott, Cassa Depositi e Prestiti e alcuni fondi italiani e stranieri, e il nuovo capitano, Luigi Gubitosi, si è insediato. La strada è stata spianata dall’attuale governo, ma, se vogliamo dirla tutta, era stata ampiamente preparata dal governo precedente a trazione Pd che aveva deciso di aiutare l’assalto di Elliott ai traballanti asset di Tim, grazie all’intervento di Cdp. Era naturale che Elliott, un «fondo locusta» che spezza le aziende decotte per poi rivenderle a pezzi, cercasse lo scorporo della rete. E’ piuttosto ipocrita stupirsene ora, come fa la minoranza che solo pochi mesi fa era maggioranza. Con il senno di poi Telecom non andava privatizzata con la rete. Ma senza rete non avrebbe fatto abbastanza cassa e c’era da entrare nell’euro. E così la scelta fu obbligata. Quelli che ci perderanno sono al solito gli azionisti – soprattutto quelli piccoli che non hanno ancora venduto un titolo da sempre in caduta libera -, ma anche questa è una tradizione nel caso di Telecom Italia-Tim. Resta da dire che è bizzarro che questa grossa rivoluzione sia possibile grazie a un emendamento – come pare, visto che se ne discuterà proprio stasera – e non grazie a un provvedimento di più largo respiro, ma bisogna accontentarsi.

I vantaggi di una sola rete di fibra ottica, capace di portarla fino alla porta del condominio, sono evidenti. Si potrà fare a meno delle duplicazioni e la cablatura del Paese andrà molto più velocemente, preparandolo alla nuove sfide della manifattura 4.0, dell’Internet delle Cose (IoT), delle nuove frontiere della distribuzione dei contenuti. I problemi sono due: uno è occupazionale, visto che si rischiano esuberi tra il lavoratori di Tim che sono già stati «limati» a più riprese. L’altro è finanziario, visto che, per remunerare gli investimenti, i costi di connessione saliranno. E non è detto che si riesca a convincere gli italiani, finora piuttosto tiepidi, che a loro tutta questa connettività serva a qualcosa.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 26 novembre