Agosto, si sa, è tradizionalmente il mese delle crisi valutarie. Ma la tempesta che sta investendo la Turchia non è una crisi di metà estate. Il Paese ha un debito estero netto pari al 35% del Pil e riserve valutarie per poco più di 100 miliardi di dollari, mentre nel 2019 andranno in scadenza debiti contratti dalle aziende per 70 miliardi di dollari. Il deficit delle partite correnti è pari a circa il 6% del Pil e in peggioramento, visto la debolezza della lira turca che ha perso più del 40% da inizio anno. La crescita dell’economia è buona, ma l’inflazione ha toccato il 15%.

La Turchia per arginare la tempesta dovrebbe alzare i tassi di interesse – e in qualche modo la banca centrale ha tentato di farlo, anche se in modo opaco – e chiedere un prestito al Fmi che di solito arriva, ma assieme a una serie di stringenti vincoli di finanza pubblica. Abbastanza per domare l’inflazione, fermare la svalutazione e mettere a posto i conti. Ma abbastanza anche per frenare la crescita. E questo Recep Tayyip Erdogan non può permetterselo. Meglio continuare con la svalutazione e l’inflazione, che impoveriscono i turchi, ma di cui si può dare la colpa alla speculazione estera. Solo che questa strada porta all’autarchia con, nel caso più grave, la fine del mercato libero dei capitali e la ridenominazione in lire turche dei depositi in valuta straniera dei propri cittadini. Insomma, un disastro economico. Ma che è più facile vendere all’opinione pubblica in tempi di nazionalismo esasperato.

Editoriale della Gazzetta di Parma del 14 agosto 2018