Non è facile di questi tempi trovare qualcuno che parli bene dell’Unione europea. Questa è un’epoca in cui qualunque tentativo di regolazione dell’attività umana viene sentito come un’insopportabile intrusione del legislatore nei rapporti tra individui. Eppure Tim Cook – l’erede di Steve Jobs alla guida di Apple – non ha avuto paura di lodare la Ue, anche se il contesto in cui tutto è avvenuto, una conferenza sulla privacy organizzata dall’Unione europea, ha certamente indirizzato la sua benevolenza.

Cook ha detto che serve un giro di vite anche negli Usa come quello che c’è stato a maggio in Europa, che, con il Gdpr – la normativa sul trattamento dei dati e sulla privacy -, è diventata «leader» tutela della privacy. Perché, ha detto, i dati personali sono «usati come armi contro di noi con efficienza militare», una vera e propria «sorveglianza» che finisce «solo per arricchire le società che li raccolgono». Cioè Google e Facebook che Cook, naturalmente, non ha citato. Sia perché era inutile, visto che tutti hanno capito l’allusione, sia perché non è fine dire male di aziende concorrenti.

Cook, ha difeso a spada tratta le decisioni di Apple che è attentissima alla privacy degli utenti. A volte sfidando i governi e il potere giudiziario che sempre più spesso chiedono di accedere al contenuto criptato nei device venduti dalla società. Ricevendo, almeno in prima istanza, un sonoro no. La crisi provocata dall’accumulo dei dati che noi spargiamo sulla rete e nei social «è reale, non è immaginata o esagerata», ha avvertito l’erede di Steve Jobs, portando a esempio il fatto che «malintenzionati o addirittura governi hanno approfittato della fiducia degli utenti per rendere più profonde le divisioni, incitare alla violenza e persino minare la nostra percezione condivisa di cosa è vero e cosa è falso».

I nostri «like», le nostre abitudini di navigazione, i nostri acquisti, le informazioni che lasciamo inavvertitamente tutte le volte che apriamo un profilo social o un account in un sito di e-commerce «consentono alle società di conoscerci meglio di noi stessi» e così gli algoritmi «possono bombardarci con contenuti sempre più estremisti, forgiando le nostre preferenze inoffensive sino a farle diventare granitiche convinzioni ideologiche». Insomma un mondo sempre più diviso in cui i «credenti» si affrontano a colpi di post o di tweet. In attesa di passare alle maniere forti nel mondo reale.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 29 ottobre