Il futuro è un tema ricorrente della riflessione del sociologo parmigiano Giorgio Triani. E’ nel titolo del suo ultimo libro – «Allegre apocalissi. Il (passato) futuro che ci attende». Ma è anche il fulcro della riflessione del suo libro precedente, «Il futuro è adesso. Società mobile e istantocrazia», scritto nel 2013.

Ed è strano questo interessarsi al tema in una società che ha smesso di interrogarsi sul futuro perché è sempre meno attenta al senso della storia, visto che le grandi narrazioni del progresso sono morte – o meglio sono immerse in un sonno profondissimo e stregato, come i dormienti della mitologia celtica – con la fine del secolo scorso. Non si tratta certo del futuro banale dei futurologi che proiettano matrici di possibilità su un tempo lineare facendoci baluginare quinte da fumetto come quelli dei «Pronipoti», la serie a cartoni animati di Hanna e Barbera.

Quindi che tipo di futuro è quello che prevede Triani? Non è un futuro escatologico da fine della storia. Anche perché la storia è già finita un paio di volte per poi ritornare, sempre sull’onda dell’ultimo saggio di Francis Fukuyama. E non è neppure quello delle «magnifiche sorti e progressive» irrise dal Leopardi, anche perché l’idea di progresso si è estinta. Eppure non è il futuro disperato dei capolavori distopici della nostra tradizione, lo specchio scuro e distorto – ma più vero in termine di bruciante realtà esperienziale – delle utopie che hanno affollato il ‘900. E’, piuttosto, un futuro disperatamente allegro. Un futuro che nasce da uno sguardo che vede i vincoli e li teme, ma al tempo stesso tiene conto delle possibilità che questo vincoli aprono e prova a immaginarsi la via stretta per superarli.

Una via che non sia quella del pensiero fossile della ribellione o dell’assoluto appiattimento alla nostra realtà iperveloce. E’ come se l’angelo benjaminiano, con le ali non più impigliate nella tempesta del progresso, avesse imparato a sorridere e, nella debole luce messianica di questo sorriso, le macerie ai suoi piedi, per un istante, fossero sul punto di ricomporsi.

Recensione pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 6 novembre 2018