A volte sono i piccoli slittamenti lessicali che segnalano la fine di un’epoca. Prendiamo i grandi gruppi italiani nei quali lo Stato ha ancora una partecipazione, come Eni, Enel, Terna, Leonardo, Snam e altri. Da un momento all’altro queste aziende sono passate dall’aspirazione ad essere «public company», cioè gruppi quotati in Borsa con un azionariato diffuso e gestite da manager che rendono conto ai mercati, alla dura realtà di essere tornate «aziende di stato». Gruppi a cui si può chiedere di accelerare i piani di sviluppo non per esigenze di mercato, quanto piuttosto perché il governo si è impegnato a raggiungere un ambizioso target di crescita del Pil.
Lo stesso è accaduto per Alitalia che sta per essere rinazionalizzata – diciamo così – attraverso l’intervento di Ferrovie e con i polmoni finanziari di Cassa Depositi e prestiti. Per i contribuenti non è un affare, visto che è un’azienda che senza una dura ristrutturazione – e con la perdita di posti di lavoro – non produce utili, ma perdite che saremo tutti chiamati a ripianare come abbiamo fatto finora. Ma a questo punto perché, come ha chiesto provocatoriamente l’altro ieri Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, non fare un bel referendum per decidere se lo Stato debba tornare a gestirla? E soprattutto il prossimo traguardo sarà quello di tornare a produrre panettoni?

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 20 ottobre 2018