Per Luigi Di Maio è un vero e proprio chiodo fisso. Ormai non si contano più le volte che il vicepremier afferma di «essere fermamente convinto che la prossima Netflix sarà italiana». L’ultima volta è accaduto in un intervento sul catalogo dei Mia, il Mercato internazionale dell’audiovisivo che si è tenuto a Roma dal 17 al 21 ottobre. Le ragioni di Di Maio sono la solita macedonia di argomentazioni da convegno sulla piccola e media impresa, basate su una presunta creatività italiana che – nel campo dell’audiovisivo – si nutre di una specie di nostalgia fossile per l’età dell’oro del nostro cinema. Quella che è finita con gli anni ’70, per intenderci. Per dare un’idea della prosa del ministro eccone un esempio: «Le industrie culturali del nostro Paese – scrive Di Maio -, anche grazie alla forza lavoro dell’indotto, possiedono pienamente il potenziale per realizzare questo progetto ambizioso e per innescare meccanismi virtuosi che condurranno alla nascita e allo sviluppo di campioni nazionali capaci di investire in nuovi modelli di business».

Peccato che il desiderio del vicepremier sia molto difficile da realizzare per non dire impossibile. Prima di tutto per un evidente problema di dimensioni di mercato: Netflix si rivolge a un’audience globale e cosmopolita che sostanzialmente parla inglese. Solo grazie a questo ha intrapreso un’ambiziosa strategia di espansione globale, andando ad occupare nicchie di mercato linguistico sempre più piccole: sulla piattaforma si possono trovare anche serie tv finlandesi (tra l’altro ben fatte), ma il grosso dei contenuti è in inglese, anche perché è difficile trovare in Finlandia qualcuno che non capisca l’inglese a parte le renne.

Ma mettiamo pure che si avveri un miracolo e che «la forza lavoro dell’indotto» italiana sia perfettamente in grado di costruire contenuti adatti ad un’audience globale – e quindi sostanzialmente in inglese, non in italiano con forte accento regionale come accade ora -, manca poi tutto il resto. Per esempio la capacità delle aziende di reinventarsi come è accaduto a Netflix che originariamente era un videonoleggio che inviava per posta Dvd agli utenti. Prima che il mercato si esaurisse, l’azienda ha cambiato pelle. Per non parlare del polmone finanziario che permette a Netflix di investire miliardi di dollari. Quale azienda italiana sarebbe in grado di emettere bond societari così ingenti con uno spread che viaggia sui 300 punti?

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 5 novembre 2018