Venezia non vuole Banksy

La cosa più divertente sono i ghisa che mandano via Banksy. D’altronde c’è la Biennale Arte in corso e c’è una questione di decoro. E’ già molto che non gli abbiano chiesto la tassa di soggiorno.

BanksyFilm (canale YouTube)

Bitcoin, passata la sbornia resta il mal di testa

Solo negli ultimi mesi del 2017, il bitcoin, la criptomoneta più famosa del mondo, sembrava sul punto di diventare l’investimento del secolo, con quotazioni che continuavano ad alzarsi e speculatori di ogni tipo pronti a gettarsi nella mischia per fare quello che sanno fare meglio, cioè separare il denaro dalla massa degli investitori che si lasciano prendere per il naso. C’erano, è vero, anche gli scettici (come chi scrive) che ricordavano la storia delle «bolle» speculative passate, dalla mania dei tuberi dei tulipani in avanti. Sono passati sono una manciata di mesi e di bitcoin – e più in generale di criptomonete – non parla più nessuno. A parte gli «spammer» che ci inondano di email con richieste di un riscatto in bitcoin con la minaccia di divulgare nostre foto intime grazie all’hackeraggio della nostra casella di posta. Insomma: siamo passati dal miraggio dell’Eldorado alla pubblicità delle «scimmie di mare». Forse è il caso di rifare un po’ il punto.

Partiamo da un report di JPMorgan Chase che – come riporta l’Ansa – ci dice che «con il crollo del prezzo degli ultimi mesi produrre bitcoin è diventato più costoso che rivenderli per tutti i trader del mondo tranne quelli cinesi, che possono contare su fonti di energia elettrica a basso costo». «Coniare» – in gergo «fare mining» o «minare» – le criptovalute, infatti, ha dei costi. Il fattore principale che determina la spesa è appunto la bolletta elettrica, perché la tecnologia richiede una grande capacità di calcolo e i server usano grandi quantità di energia. «Nell’ultimo trimestre del 2018 – scrivono gli esperti – la media mondiale del costo per singolo bitcoin si è attestata sui 4mila dollari, mentre attualmente la criptovaluta è scambiata intorno ai 3600 dollari». I cinesi, invece, hanno costi inferiori (circa 2.400 dollari). Se le quotazioni rimarranno vicine a quelle attuali «produrre» bitcoin non sarà più conveniente e molti operatori usciranno dal mercato.

Ma non è finita qui. Il trentenne Gerald Cotten, fondatore di uno dei più grandi siti di scambio di criptovalute, QuadrigaCX, è morto in India due mesi fa portando per sempre con sé le chiavi di accesso alla piattaforma. Di fatto rendendone impossibile l’accesso e mandando in fumo una cifra pari, alle quotazioni attuali, a circa 150 milioni di dollari. Un bel pasticcio – alcuni sospettano che si tratti di una truffa – che ha ulteriormente destabilizzato il mercato delle criptovalute. Una tecnologia promettente, ma immatura.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 18 febbraio

Alitalia, il ritorno dello Stato aviatore

C’era una volta, non tanto tempo fa, lo stato imprenditore. C’erano una volta le grandi aziende di Stato che producevano di tutto: dall’acciao ai panettoni. C’era una volta il Ministero delle Partecipazioni statali che coordinava un sacco di sigle che ora sembrano astruse: Iri, Eni, Egam, Eagc, Efim, Eagat e Eamo. Per non parlare di Enel, Ferrovie dello Stato, Poste, delle banche e della Telecom-Sip. E di Alitalia. Una fetta enorme dell’economia italiana dipendeva da decisioni politiche. 

Poi, sotto il peso del nostro debito pubblico e delle terribili inefficienze economiche di questo sistema, si iniziò a privatizzare. Fu un processo difficile, lungo, con grandi costi sociali e a volte con pessimi risultati. Un esempio su tutti: Telecom. Eppure fu un processo doveroso perché la gestione delle aziende non deve dipendere dalla politica. Pena la nazionalizzazione dei costi delle inefficienze provocate dalla politica.

Con Alitalia, sembra che si voglia tornare indietro e lo Stato (ministero del Tesoro, e Ferrovie) potrebbe superare il 50% del capitale della società con l’aiuto di Cdp. Intendiamoci: con le regole europee l’intervento non potrà essere una semplice nazionalizzazione. Ma l’operazione è giustificata sempre allo stesso modo: la salvaguardia dei livelli occupazionali. Solo che una società non efficiente è destinata a perdere soldi e poi a fallire. O a essere «salvata» per l’ennesima volta. E alla fine il conto lo pagheremo noi cittadini.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 15 febbraio 2019

Facebook, 15 anni tra luci e ombre

Facebook ha appena compiuto 15 anni, visto che fu fondato il 4 febbraio 2004 in un dormitorio di Harvard da Mark Zuckerberg e alcuni compagni. E, come ogni adolescente, sta vivendo un periodo burrascoso.

Vediamo prima le luci che sono tante e molto brillanti, sia dal punto di vista finanziario, sia dal punto di vista della crescita degli utenti. Il colosso di Zuckerberg archivia il quarto trimestre 2018 con un utile netto in aumento a 6,88 miliardi di dollari, o 2,38 dollari per azione, sopra i 2,18 dollari attesi dagli analisti. I ricavi sono saliti del 30% a 16,91 miliardi di dollari, decisamente al di sopra dei 16,39 miliardi su cui scommetteva il mercato. Gli utenti attivi giornalieri, poi, sono stati in media 1,52 miliardi nel dicembre dell’anno scorso, il 9% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Gli utenti mensili sono saliti del 9% a 2,32 miliardi. I ricavi da pubblicità sui dispositivi mobili hanno rappresentato il 93% del totale ricavi. Le piattaforme che Facebook ha acquisito nel corso degli anni (Instagram, WhatsApp e Messenger), infine, fanno faville. Messenger è stata sviluppata «in casa» e lanciata nel 2011, Instagram è stata acquistata nel 2012 per 1 miliardo di dollari e ha raggiunto un miliardo di utenti. WhatsApp è stata invece comperata nel 2014 per 14 miliardi di dollari e ha sforato il tetto del miliardo e mezzo di utenti.

Ora vediamo le ombre che sono tante. Anche se per ora non intaccano, come abbiamo visto, il business di Facebook. Quella più pesante deriva del modello di business stesso del social network per eccellenza che offre un servizio gratuito – e per molti eccellente e prezioso – in cambio di una profilazione ad alzo zero degli utenti. Un numero impressionante di dati che poi vengono utilizzati per «tagliare» al meglio sui gusti dello specifico consumatore la pubblicità. Questa bulimia di dati, a volte conquistati con tecniche molto invasive, è sempre più nell’occhio del ciclone. Per esempio la Gdpr, la normativa europea sulla privacy entrata in vigore a fine maggio 2018 ha dato maggiori protezioni agli «under 16». E proprio questa settimana l’Antitrust tedesco ha deciso che Facebook potrà continuare a raccogliere dati dei propri utenti ricavati da altri siti e app solo con il consenso esplicito degli interessati. Se la raccolta dei dati diventerà più difficile – e più costosa – per Facebook saranno dolori. E l’effetto potrebbe essere più pesante di quello provocato dalla buriana delle Fake News.

Analisi pubblicata sulla Gazzetta di Parma dell’11 febbraio 2019

Apple, la Cina, gli Usa e… una vite

La trimestrale di Apple è andata meglio del previsto anche se per la prima volta da dieci anni la società di Cupertino ha registrato un calo dell’utile e dei ricavi negli ultimi tre mesi dell’anno. Ma nonostante questo Apple ha superato le attese che, dopo il «profit warning» lanciato qualche tempo fa, si erano decisamente abbassate. L’amministratore delegato Tim Cook spiega il calo dei ricavi con il fatto che chi ha un iPhone tende a cambiarlo meno spesso con un modello nuovo fiammante perché, afferma Cook, «disegniamo i nostri prodotti per durare il più a lungo possibile» Paradossalmente, quindi, secondo Cook, è l’estrema qualità dei prodotti Apple che contribuisce alla crisi delle vendite. Del resto è la qualità dei prodotti Apple che consente alla società di venderli a un prezzo molto più alto rispetto alla concorrenza e che garantisce che chi compera un iPhone tenda a rimanere leale alla marca anche nei futuri acquisti.

E questo ci porta al tema di oggi che non è di natura finanziaria, ma più squisitamente industriale. E’ la storia – raccontata dal New York Times – di un prodotto Apple di nicchia, il Mac Pro 2013, un computer bellissimo, molto costoso – tremila dollari di prezzo base – e molto potente pensato per il mercato professionale e di una piccola vite. Apple aveva deciso nel 2012, in piena campagna politica contro le delocalizzazioni, di costruirlo tutto negli Stati Uniti. L’idea era un bel colpo di pubbliche relazioni, ma non era completamente campata in aria. Il prezzo alto del Mac Pro 2013 avrebbe ammortizzato il costo più alto del lavoro negli Stati Uniti e del resto il fatto che si trattasse di un computer da cui ci si aspettava bassi volumi di vendita non avrebbe costretto la società a grandi investimenti industriali.


Ma il diavolo – recita l’antico adagio – si nasconde nel dettaglio. Nella nostra storia il dettaglio è una piccola vite. Non una vite qualsiasi, ma una vite con tolleranze molto strette. Bene, all’epoca non c’era alcuna azienda negli Stati Uniti capace di fornire le viti. L’unica individuata, infatti, riusciva a produrne non più di 1.000 al giorno. Poi se ne trovò una che ne produceva 28.000, ma con tolleranze più ampie. E venivano consegnate a mano dal proprietario. Alla fine Apple fu costretta a far fare le viti in Cina. A quanto pare non è solo una questione di dazi e di lavoro a basso costo, ma anche, e soprattutto, di capacità industriale.

Maduro è un dittatore, ma l’Italia tentenna

Uno degli ultimi successi del governo di Nicolás Maduro è il ritorno in Venezuela della difterite. Lo ricorda uno studio Universidad Central de Venezuela pubblicato da «Lancet Public Health», secondo cui le cause principali del fatto che il tasso di mortalità infantile è tornato ai livelli degli anni ’90, sono la malnutrizione e il collasso del sistema sanitario.

Questo per dire che la crisi politica del Venezuela non è solo un caso di schizofrenia istituzionale, ma anche e soprattutto un problema di sopravvivenza per i venezuelani. La schizofrenia è dovuta al fatto che non solo ci sono due presidenti – Maduro e il presidente del parlamento Juan Guaidó -, ma anche due «parlamenti» visto che all’Assemblea nazionale, controllata dall’opposizione, si contrappone l’Assemblea nazionale costituente, eletta dopo un voto farsa, e che è «madurista» come il Tribunale supremo.

Di fronte a questo groviglio resta però il fatto che il Paese è allo sfascio a causa delle velleitarie politiche del regime. E tutto è aggravato dalle sanzioni imposte al Paese perché Maduro non rispetta i diritti umani. Questa situazione richiede che i Paesi democratici riconoscano Guaidó, il giovane leader dell’opposizione che ha promesso il voto al più presto. Ma il governo italiano tentenna. Anzi i 5 Stelle premono perché si allinei alla posizione «terzista» del Messico e dell’Uruguay. Il tutto in nome di una stantia ideologia terzomondista che chiude gli occhi di fronte a un regime brutale.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 29 gennaio

May, sconfitta devastante. Ma non c’è alternativa alla premier

«There is no alternative», «non c’è alternativa», era uno dei mantra più famosi di Margaret Thatcher, la «lady di ferro» che ha cambiato la Gran Bretagna in modo radicale. Questo mantra era tanto famoso da diventare un acronimo: «TINA». Era la parola finale della Thatcher quando si trattava di stroncare la resistenza dei minatori o se si trattava di sedare le rivolte all’interno del suo rissosissimo partito.

E anche ora – purtroppo – a Londra non ci sono alternative a Theresa May, nonostante la devastante sconfitta a Westminster sull’accordo sulla Brexit: 230 voti di scarto con mezzo partito conservatore che l’ha abbandonata come un cane ad agosto in tangenziale.

Oggi, infatti, con tutta probabilità la mozione di sfiducia presentata dai laburisti verrà bocciata dalla stessa maggioranza che si è sfarinata quando si è trattato di votare a favore di un accordo non perfetto, ma che comunque risolveva il nodo Brexit in modo non troppo pesante. Il fatto è che nessuno ha idea di come uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciata la Gran Bretagna con il referendum. E allora si manda avanti il caporale May che assomiglia sempre più a un fante mandato al massacro sul fronte della Somme. Difficile che, ormai ridotta a uno zombie politico, ottenga qualcosa di più da Bruxelles. intanto il fantasma del «no deal» è sempre più reale.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 16 gennaio

Brexit: Londra è (in)decisa a tutto

«Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente». Molti a Londra in questi giorni vorrebbero avere l’ottimismo – o il giudizio accecato dall’ideologia, a volte le due cose si equivalgono – di Mao Zedong, l’autore della celebre massima.

Infatti la confusione – a pochi giorni dal voto sull’accorto trovato dalla premier Theresa May con la Ue, previsto per martedì prossimo – è grande. Anzi enorme. È, infatti, altamente probabile che l’accordo venga bocciato dal Parlamento, visto che non ha convinto nemmeno i conservatori, il partito della May che è diviso – come tutto il Paese – tra fautori della Brexit e invece chi preferirebbe rimanere nell’Unione europea.  Eppure la quasi certezza della bocciatura del piano che potrebbe portare a una disastrosa uscita del Regno Unito dalla Ue senza alcun accordo, pare aver stregato l’intera classe politica bloccata e immobile. Pietrificata dallo sguardo di Medusa. 

C’è chi preferisce un accordo con meno vincoli, c’è chi vuole un patto ancora più stringente, c’è chi chiede più tempo e un secondo negoziato, c’è chi punta a un secondo referendum che annulli il primo e chi, invece, spera nelle elezioni anticipate. Ma nessuno sembra prendere sul serio l’ipotesi di un «no deal», del mancato accordo, che a ogni ora che passa, sembra sempre più spaventosamente reale. Con la recessione mondiale che, secondo tutti gli studi, potrebbe innescare.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 12 gennaio 2019

Il controeditto bulgaro

Correva l’anno 2002 quando l’allora premier, Silvio Berlusconi, da Sofia, chiese alla Rai la testa di Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi per il delitto di «uso criminoso della tv». Era il famoso «editto bulgaro». Allora la televisione era il duopolio Rai-Mediaset. Il satellite era di nicchia, internet non esisteva. Carlo Freccero era il talentuoso direttore di Rai2 e Luttazzi era un comico emergente. Sia Freccero che Luttazzi furono epurati.

Freccero lasciò il posto ad Antonio Marano, in quota Lega. Ora Freccero è tornato a dirigere Rai2, grazie a un governo in cui la Lega è parte integrante. La tv è cambiata, i canali sono esplosi, c’è internet e Rai e Mediaset non sono più gli unici gorilla nella foresta. Ma Freccero riparte da Luttazzi, come se fosse il 2002. E toglie spazio a Luca (Bizzarri) e Paolo (Kessisoglu), ottimi comici, forse perché rei di aver fatto un’imitazione di Toninelli. In Italia tutto cambia perché tutto resti come prima.

Corsivo pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 5 gennaio 2019

Per Trump un duro fine anno. Sarà cosi anche il 2019?

Non è un fine anno allegro quello di Donald Trump. Le elezioni di metà mandato sono andate male, anche se non malissimo come pareva solo pochi mesi prima del giorno del voto: il partito del presidente ha mantenuto la maggioranza al Senato, ma la sconfitta alla Camera è stata pesante, anzi pesantissima. E dall’inizio del prossimo anno la Casa Bianca dovrà tenerne conto. In più c’è stata una serie di importanti dimissioni all’interno dell’Amministrazione: se ne sono andati il ministro della Giustizia, Jeff Sessions, il capo dello staff presidenziale, John Kelly, e il ministro della Difesa, Jim Mattis, questi ultimi due ex generali, celebrati e incensati da Trump all’inizio del loro mandato, ma poi entrati in un insanabile conflitto con il capo della Casa Bianca.

 In più il presidente è nel mirino dell’inchiesta dello «special prosecutor» Robert Mueller che indaga sulle influenze russe sulle elezioni del 2016 ed è criticato all’interno del suo partito per la sua gestione della politica estera – la decisione di abbandonare la Siria al suo destino non è piaciuta a nessuno, almeno a Washington – e per i continui conflitti con la Federal Reserve – con minacce di destituzione per il presidente, Jerome Powell – che fanno fibrillare Wall Street.

 È una posizione difficile anche se l’imprevedibilità di Trump è proverbiale. E quasi sempre i presidenti Usa riescono a conquistare un secondo mandato.

Editoriale pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 28 dicembre 2018